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DIOSCORO L’EPICUREO

Venuta la sera del giorno in cui Dioscoro fu consacrato Patriarca, egli si ritirò in solitudine nel chiostro di San Michele e camminava inquieto fra le tombe dei santi padri della Chiesa d'Egitto e poiché sentiva di essere solo e di aver accettato un compito troppo grande per un uomo senza fede, cadde in uno sconforto profondo e così disse tra sé: "La cicogna dell'aria conosce le sue stagioni e la tortora e la rondine sanno ritornare al loro nido, ma io ho smarrito la via ed ecco, sono profeta, sacerdote e re e devo curare le ferite del mio popolo gridando ovunque: pace, pace, ma la pace non c'è, io devo sperare nella pace, perché i figli del mio popolo hanno bisogno di pace, ma non c'è pace nella mia anima e la mia eredità è il silenzio, vorrei essere sereno malgrado la tristezza, vorrei che il mio capo fosse una fonte di acque e il mio occhio una sorgente di lacrime, vorrei piangere il giorno e la notte".

Ed ecco l'angoscia cresceva di giorno in giorno nel cuore di Dioscoro ed egli diceva fra sé: "Non voglio più essere Vescovo di questa città perché la mia anima è in pena e ho smarrito perfino la volontà di sperare, fuggirò in un'altra città dove nessuno mi conosce e ricomincerò a vivere come non avessi mai vissuto.

Ma al fare del giorno, Dioscoro, che amava il suo popolo, si faceva lieto in volto e finché durava la luce del sole si abbandonava a tutte le fatiche con gioia, attendendo con terrore il momento in cui sarebbe rimasto nuovamente solo ad affrontare una notte di disperazione.

Ed ecco, accadde che in una notte fu preso da una angoscia terribile e così disse tra sé: "Il cielo è immenso e silenzioso e io devo vestire l'abito della gioia perché gioiscano con me quelli che mi cercano, a me non è dato di essere triste e di gridare lo sgomento della mia disperazione. Prima di me vennero uomini santi che operarono miracoli e vollero ascriverli a gloria di Dio, vi furono patriarchi che fecero fiorire i gigli nel deserto e dissero: Dio ha fatto questo, altri che per la pace spesero ogni ora della loro vita e dissero: il Signore é il principe della pace, altri che amarono i loro fratelli fino al sacrificio della vita e dissero che Dio li aveva amati, vi furono uomini degni di essere maestri che obbedirono fino all'ultimo a una legge che non comprendevano, ma io non credo in nessuna salvezza, non attendo su di me la destra di Dio e devo ammaestrare il mio popolo e guidarlo su vie che non conducono in alcun luogo perché esso provi ogni giorno la felicità di una nuova partenza, e mi chiamano padre e dicono che la mia presenza e la mia parola è la loro sicurezza.

Popolo mio che non puoi comprendermi, con la morte nel cuore ho celebrato per te i misteri della vita, ho finto per te di credere nel domani per essere ai tuoi occhi l'uomo della speranza. Avrei voluto piangere dinanzi a te e strapparmi le vesti perché tu potessi leggermi nel cuore, perché è un uomo senza fede che ti é maestro nella fede, un uomo senza speranza colui che ti grida di sperare oltre la morte, è un uomo infelice quello che ti dice che la felicità é nell'amore.

Popolo mio, gregge sperduto di un pastore più sperduto, abbi pietà di un uomo che ti inganna per poterti rendere felice.

Quando viene il tempo del terrore i figli corrono dai padri per avere consolazione, ma i padri da chi andranno?

Gli uomini vivono secondo la legge del loro cuore e conoscono tristezza e felicità e sperano nel domani dicendo: oggi è per piangere ma domani sarà per esultare di gioia, e io dico loro ogni giorno che cerchino la loro felicità, che bacino il suolo e santifichino la terra che li conforta alla speranza. Ma quale domani vi sarà per l'uomo solo che veglia la notte con la disperazione nel cuore? Ecco ha già scritto il suo testamento, non lascia eredi perché di lui si perda anche il ricordo o il ricordo almeno sia felice. Bruciate il fieno sul campo per togliere alla falce la sua rapina.

Popolo mio, mosaico di uomini la cui salvezza è oscura, oggetti del mio amore folle che non adempie il primo dei comandamenti ma premia soltanto un inutile orgoglio, quante volte ho spiato gli occhi sognanti, le lacrime del pianto e ho detto: ecco, i miei figli mi amano, quante volte ho pregato o creduto di pregare perché la felicità invadesse il cuore dei miei figli e io vedessi il sorriso sulle loro labbra e dicevo tra me: la loro gioia è la mia gioia. Ma a che giova all'uomo credere di salvarsi? Eppure io voglio parlare di gioia perché nessuno desidera la gioia più di colui che ha la morte nel cuore.

Popolo mio che vuoi l'amore di una donna per la tua felicità e vuoi il suo cuore per te ed hai paura che si innamori dell'ultimo degli uomini, popolo mio che dici al pellegrino: allontanati dalla mia casa, ché io non abbia a condividere con te il cuore della mia donna, e ti spaventa anche il ricordo di quelli che amò e dici ad essi: vorrei che mai vi avesse amato ma ora gioite con me perché ella mi ama e strapperà dal suo cuore il vostro ricordo.

Popolo mio che odi i fratelli e il padre della tua donna e dici: i baci che diede a suo padre li strappò alla mia bocca.

Popolo mio che cerchi la felicità e non ti basta il pane per sfamarti e hai dinanzi la speranza della vita e dici: chi é più disgraziato di noi che non siamo felici. Ma perché la felicità dovrebbe esserti dovuta?

Popolo mio nella cui gioia ho cercato la mia salvezza, perché vedo in te questa debolezza?

Popolo mio che vieni pellegrino al monte santo di Dio per riposare l'anima rifiutata, stenditi presso l'olivo e non temete alcun male.

Popolo mio, schiera di angeli incarnati, perché tu vuoi che altri viva della tua gioia e ti dica: tu sei l'unica ragione del mio vivere e cerchi parole dolci e sapore di consolazione e di speranza?

E l'uomo solo fugge sull'altissima montagna e una ansia terribile d'amore gli spacca il cuore, fiuta il deserto, ascolta il deserto profondo, non ha lacrime per piangere né parole d'amore o di speranza, egli non teme la morte perché essa lo ama e ogni notte gli sibila all'orecchio il suo messaggio, ma non è la morte dei figli di Dio che lo cerca, la morte di chi si chiude alla speranza è solo un vento eterno che crea spazio per una nuova vita. L'uomo solo ha un corpo vecchio perché la morte non predilige la gioventù. L'uomo solo ama il sonno profondo perché somiglia alla morte.

Quando sono venuto tra voi dicevo: questo è il popolo della mia eredità, in esso troverò la mia felicità, ma ora dico fra me che questo popolo non è il mio popolo e parla una lingua sconosciuta e vorrei cercare in un'altra città per vedere se lì vive una gente che rispetti il mio cuore martoriato e non dica nulla e non mi getti in faccia il suo amore inutile e straziante, non mi inchiodi a una croce di assurde speranze, non mi costringa al sorriso quando ho la morte nel cuore e non si illuda di ingenue presunzioni promettendosi la mia anima in premio.

Per amore ho detto il falso, per amore ho chiuso la porta del mio cuore e ho finto santità, ho giocato al miracolo sfigurando il mio petto con la lama sottile  e penetrante della dolcezza: ho dentro di me un rigurgito di sangue rosso e caldo.

E quelli che hanno lacrime dicono: costui è duro di cuore e non sa piangere e altri hanno il dono della giovinezza e la presunzione del futuro, eppure è scritto che gli uomini nascono uguali, ma anche questo è un inganno.

Popolo mio che mi porgi la mano perché il cuore della tua donna trabocchi di felicità, popolo mio che mi strigi la mano per pagare il prezzo della tua libertà, popolo mio che ritiri la mano perché io non mi illuda di non morire solo, sorriso sulle tue labbra e gioia radiosa del cuore, mi strappi un sorriso stentato, mi obblighi a dire che sono felice perché il tuo cuore trabocchi.

Bacerei il volto della morte in queste ore di strazio profondo, berrei d'un fiato l'intero calice del mio veleno, eppure io ti amo di un amore folle e disperato che mi rende padre e provo l'angoscia di colui che è padre senza avere conosciuto donna.

E batto il mio petto e dico: figli amati di un amore assurdo, figli che mi chiamate padre e madre, figli che non potete capire lo strazio che costa un sorriso falso al cuore di chi vi ama senza speranza, figli che cercate la mia benedizione per rendere gioiosa l'esclusività del vostro amore, figli che mi dite: esulta con noi perché ci amiamo, figli del mio amore disumano, figli il cui amore sconvolge la mia anima.

Sarò per voi maestro d'amore, vi insegnerò ciò che non conosco, muterò il mio sudore di sangue in nettare, vi ciberete di me divorando il mio cuore, berrete il mio pianto e ciò vi sarà dolce, vi sarò maestro di felicità, brucerà per voi l'anima ferita.

Portatemi un lino candido tessuto da una vergine perché possa adagiarmi e attendere l'amplesso della morte, chiudetemi dentro quel lino perché nessuno mi veda nell'istante supremo, quando per terrore mi vincerà di nuovo il desiderio di Dio. Non toccate il mio corpo, lo sposo perfetto della morte, il suo estremo contorcersi e il suo gridare vi parlino della gioia della vita, non chiudetemi gli occhi: che il vento li asciughi e il sole li ferisca.

Popolo mio, della cui brezza amorosa s'incendiano ancora le mie vene, non rattristarti per me, non piangere quelli che sono morti e che ti parlano di vita. La pioggia mi lavi perché per essa non mi coprirò.

La felicità dei miei figli mi usa violenza ed è tremare e piangere solo al ripensarla, per i vostri felici giochi d'amore sanguina l'anima contorta e vergine, corpo mio, che porti il segreto dei tuoi giorni, perché ti affanni e ti manca il respiro e un'onda di calore t'invade come fosse amore? E' la disperazione che rode le tue ossa, è il tuo declino che ti fa maledire gli anni trascorsi nell'angoscia di Dio. Allora mi era gioia distruggermi e volevo fare del mio corpo un tempio dello spirito. Nel nome di un Dio sconosciuto uccisi la mia anima innocente.

Popolo mio, non maledirmi, non scagliare la tua ira contro di me: popolo mio, sappi la verità: il peccato più grande è bestemmiare contro la propria anima, popolo mio che tutto sai e nulla comprendi, popolo sempre nuovo, popolo di tutti bambini, figli che portate in voi la vostra legge e questo vi basta, figli per i quali è possibile la felicità, figli del mio amore sterile, figli amati di un amore viscerale, più che paterno e materno, carne della mia carne e vita della mia vita, sostegno della mia anima dispersa, creerò per voi un giardino di eden i cui alberi affondino le radici nel mio sangue, figli che mi vedete un ostacolo alla pienezza della vostra felicità, figli le cui notti sono popolate di dolci sogni, figli che non avete paura del futuro, figli che temete di essere estranei nel vostro mondo, figli che mi dite: tu ci hai insegnato ad amare, figli il cui turbamento è dolce di speranza, figli dal cuore semplice, figli che non capite la veglia della disperazione.

Eppure tutto è semplice e il mio folle cuore vi ringrazia di essere straziato. Ho il cuore innocente, griderei sul mondo per trovare un'eco al mio grido d'amore, cerco una nuova anima per rinascere, per aprire ancora il ventre di mia madre e ricominciare, e forse sarei come voi, forse avrei un cuore tenero e crudele che racchiude il mistero della sua felicità, forse allora cercherei l'amore con innocenza incosciente e spererei d'essere amato per me stesso e cederei agli inganni dolci e alle promesse di altri cuori adolescenti, ma il tempo corre verso il declino e ciò che dico me stesso non è che un casuale incontro di passioni, un groviglio d'indistinte sensazioni, l'ennesimo difettoso reincarnarsi.

Popolo mio che illudi il tuo cuore innamorato di essere unico, popolo mio che mi hai detto: non te ne andare, non riporre in me la tua speranza perché non posso restarti vicino e quando altri desideri ruberanno il tuo cuore non dirmi nulla perché non mi appartieni.

Popolo mio che entri dalla porta stretta del mio cuore e lo saccheggi con violenta dolcezza e vuoi per te ciò che vi tengo nascosto, non stupirti se ancora ti sorrido perché questo è un mistero che non puoi comprendere, figli che non vedete il mio sconforto, per voi io piango queste lacrime calde, figli cui è lecito sbagliare, figli incapaci di perdonare, figli che piangono e che fanno piangere, figli che mi chiedete aiuto perché vi insegni a essere forti della vostra felicità, figli delle mie viscere e del mio cuore, figli che la mia anima ama follemente: oggi desidero soltanto morire.

Sono un nulla su questa terra vivente, non posso creare la felicità e tutto sarà confuso, tutto sarà bruciato.

Non lascerò né traccia né ricordo, nella mia morte è il senso unico del tempo e della vita.

Nessuno attendeva proprio me, piangeranno per la morte di un uomo qualunque, per lo sfarsi di un'anima, per lo sfarsi di un corpo senza più voce. Vorrei che cantassero per me il miserere, come per la morte degli uomini giusti.

Maledetta lussuria, maledetta pietà, maledetta la vita senza perché, maledetta la morte, la mia morte.

Sulla mia tomba scriverai: mite come un agnello.

Sulla mia tomba scriverai: allontanati Satana, lupo maledetto.

Vorrei morire solo, finire dolcemente, senza fame d'aria dopo l'ultimo respiro, senza pregare Dio per un attimo ancora di vita.

Partirò conciliato con la vita, partirò senza odio nel cuore.

Come neve che al suo tempo si scioglie partirò chiudendo gli occhi come chi è stanco della vita.

Soffi sul mio cuore un alito solo di questo dolce vento della morte, dolce come la vita per quelli che l'amano, m'innamori la morte di sé. Di me nulla voglio lasciare, ho perso il coraggio della verità. Pace, dopo queste lotte inutili e inumane. Non ho sperato che di incerta e dubbiosa speranza e non attendo resurrezione. Pace, fiore diletto della disperazione.

Non piantare la vigna del domani, non vale inchiodarsi alla terra quando soffia il vento della morte. Il mio corpo sulla strada sarà segno pietoso, verrò ben vivo alle soglie della morte e non griderò. Non correrò, non fuggirò perché non ho altra pace. Sarà un sonno dolce, senza sogni. Non seminerò i campi sterili della morte, la morte mi coglierà con la giovinezza nel cuore.

Questo è il porto, questo è il dolce porto, dolce dopo il canto magico degli uomini felici, dolce dopo gli occhi umidi, dolce dopo le parole non dette, dolce dopo i silenzi e le attese, dolce dopo il vuoto dell'attesa, dei giorni folli, del piangere e ritrarsi dalla vita, dei desideri che schiacciano e di Dio. Tempo di Dio è il giorno della sofferenza, tempo mio dolce, sospiro della morte di Dio nel cuore. Amore per creare, amore per soffrire, amore per imparare a morire, amore dolce senza occhi. Speranza, amore maledetto, bevo il tuo latte perché sia più pura almeno la mia morte. Perfido Dio che crei per distruggere! Cantate uomini senza speranza questo canto al senso unico di tutto il vivere vostro, cantate uomini della solitudine la vostra bestemmia dolce contro lo spirito che ha posto la maledizione a tenerci a bada. Cantate, gridate forte quando avrete vicino il vostro tempo e consumerete di baci questa croce che vi chiama a morire senza lamenti per gli assurdi disegni di Dio. Questo è il segno inutile a chi vive, questo è il segno della morte assurda, morte santa di chi non può vivere che per distruggere. Maledetto il Dio geloso che ha posto un confine tra noi e il sonno eterno e ha creato quell'unica paura che chiamiamo amore della vita".

In tali meditazioni e in tali vagheggiamenti della morte Dioscoro trascorse in preda all'angoscia l'intera nottata.

Ora ecco, sul fare dell'alba, venne da lui il Diacono e gli disse: "Santissimo Patriarca, vedi che alba radiosa ci concede il Signore nel giorno solennissimo di San Marco! Molti pellegrini hanno risalito il corso del Nilo per essere oggi in Alessandria e molti monaci hanno abbandonato le loro spelonche nel deserto perché essi sanno che secondo la tradizione dei nostri padri, nel giorno di San Marco, i monaci di Sceti e della Nitria devono venire in Alessandria per fare festa in questa città nel giubilo del popolo”.

E il Diacono gli disse che i bimbi staccavano foglie di palma e rami di olivo ed andavano al villaggio di Sciamun ad accogliere i monaci dove essi cominciavano a piantare le loro tende, e facevano loro grande festa e disse anche che molto popolo era già per le strade e davanti ad ogni porta avevano messo foglie di palma e le donne avevano impastato e cotto focacce di pane unte di olio e ne facevano dono ai monaci del deserto perché nel giorno di San Marco, che è festa grande in Alessandria, essi non dovessero preoccuparsi di che cosa mangiare.

E il Patriarca gli rispose: "Fai aprire le porte della Chiesa di San Michele, fai suonare tutte le campane della città di Alessandria, tira fuori i paramenti d'oro e l'incenso della Siria, copri l'altare con tre lini candidi perché oggi è un giorno santissimo per gli abitanti di questa città". E il Diacono corse esultando a fare quanto il Patriarca gli aveva ordinato.

E quando la Chiesa fu piena, così che nessuno più vi poteva entrare, si fece un grande silenzio e Dioscoro, salito alla cattedra cosi parlò: "Venerabili vescovi fratelli nella fede, monaci santi che dall'aridità di Sceti e della Nitria avete fatto convergere i vostri passi verso Alessandria per onorare il giorno solennissimo di San Marco secondo il costume dei nostri padri, figli amati di questa città che vi accingete a celebrare la vostra beata certezza, il vostro patriarca viene a voi col cuore traboccante di gioia, come lo sposo che per amore mette l'abito più bello ed unge la barba di nardo per apparire radioso nel giorno delle nozze. Ho mondato le mie mani con la potassa e col nitro, ho messo al dito l'anello d'oro e sul capo una corona candida, per essere quest'oggi come tu mi vuoi, per essere quest'oggi uno sposo perfetto per il mio popolo santo.

Ma ecco in questo giorno di gioia io vedo davanti a me moltissimi monaci che hanno fatto del deserto la loro dimora, perché dunque questi uomini, che ora vedete in mezzo a voi, hanno scelto una via così difficile?

Quando un uomo si inoltra nel deserto di Sceti, voi dite che è folle, che va incontro alla morte e che non tornerà perché il sole disseccherà la sua pelle e la sabbia lo seppellirà, ma quando un monaco avanza nel deserto di Sceti voi dite che va verso la pace e che in ogni anno della vita che Dio vorrà accordargli, nel giorno di San Marco, tornerà in Alessandria per vivere il giubilo di questa città.

Molti eserciti di faraoni sono sepolti sotto le sabbie del deserto ma io vi dico: gli uomini che hanno una speranza non periscono sotto le sabbie del deserto. I monaci che sono venuti da Sceti e dalla Nitria avevano intorno l'aridità della morte ma portavano fonti di acqua viva dentro i loro cuori.

Considerate questo sole che inonda questo tempio santo, è lo stesso sole che dissecca il deserto ma voi dite che fa crescere l'erba nei campi e che è un dono di Dio. E' forse il sole buono o cattivo? Quelli che si inoltrano nel deserto ne sono tormentati ma per quelli che sono nell'orto di casa è una benedizione.

Come è del sole, io vi dico, così è di ogni cosa: non fuggite dunque nel deserto quando potete restare nell'orto di casa, ma se il deserto vi chiama, non avviatevi verso di esso prima di aver reso il vostro cuore una fonte di acqua viva.

Quando il sole tramonta dietro le dune di Sceti per un attimo il cuore del monaco dice: trovo ristoro al calore del giorno, ma presto subentra il rigore della notte e le stelle invadono il silenzio della volta del cielo e il cuore del monaco attende l'alba e il sole che verrà a riscaldarlo, eppure il monaco dice: il deserto è la mia casa.

Molti direbbero: costui getta la sua vita tra le pietre sterili mentre noi innestiamo la vite e potiamo l'olivo e abbiamo greggi e la nostra vecchiaia è allietata dai nostri figli. Che fa dunque il monaco nel deserto?

Ma il monaco dice: il deserto è la mia casa e il cielo il mio tetto, la vostra speranza è la mia speranza e i vostri figli sono i miei figli.

Ecco dunque che i vostri figli sono accorsi a far festa ai monaci venuti da Sceti e dalla Nitria e voi siete scesi per le strade per vedere gli uomini che hanno eletto il deserto come loro dimora, avete forse detto: essi non sono come noi? Ecco, voi parlate la stessa lingua, gli avi dei vostri avi vissero sotto le stesse tende e avete la stessa fede e la stessa speranza e voi li avete riconosciuti come fratelli tra i fratelli.

Ma io vi dico che vi sono molti deserti senza sabbie e senza sassi in luoghi dove pochi sanno riconoscerli e molti monaci vivono in questi deserti. Dio voglia che voi sappiate accogliere come fratelli anche i monaci che vivono in questi altri deserti per dire loro: i nostri figli sono i vostri figli e che sappiate essere a vostra volta monaci nel deserto di questa città nel momento in cui sarà dato anche a voi.

Il monaco non è nato monaco, egli ha scelto il deserto, non resterà forse monaco se abbandonerà Sceti e la Nitria e verrà nel deserto di questa città? Ma io vi dico che l'aridità si nasconde spesso nel profondo del cuore e molti sono chiamati ad essere monaci nel deserto del loro cuore. Ogni giorno si vince il deserto e non una volta per tutte. Andate dunque dove il vostro cuore vi chiama portando con voi la certezza che nel giorno di San Marco sarete di nuovo in Alessandria e i figli di questa città agiteranno per voi rami di palma in segno di gioia. Beati quelli che custodiranno la speranza anche nel deserto del loro cuore e non cederanno alla disperazione perché sta scritto che anche per essi verrà il giorno di uscire dal loro deserto e di rientrare in una città in festa.

Il monaco del deserto conosce la tana della serpe e sa sotto quali pietre si nasconde lo scorpione ma egli non uccide la serpe e non schiaccia lo scorpione perché essi vivono nella sua dimora.

Il monaco sa che miriadi di serpi strisciano nel deserto e che lo scorpione ha progenie numerosa. Il monaco sa tutto questo e non si affanna a sterminare gli avvelenatori del deserto perché nel deserto ovunque egli vada troverà altre serpi e altri scorpioni, eppure il monaco dice: il deserto è la mia casa, e io vi dico: vi sono molte serpi e molti scorpioni, fate in modo che non si annidino nel vostro cuore. Chi ha orecchio per intendere intenda.

Quando avrete reso il vostro cuore un giardino nel deserto e avrete imparato a vivere tra le vipere e gli scorpioni senza che essi si annidino nel vostro cuore, io vi dico, non sarete lontani dal regno di Dio.

Quando il monaco si leva prima dell'alba e vede la stella del mattino splendere sull'orizzonte verso oriente il suo cuore si rallegra, ma in Alessandria la stella del mattino si leva dal mare.

Quando il monaco sente il vento e se ne riempie la narici e vi coglie gli aromi della primavera il suo cuore si rallegra, ma in Alessandria vi sono giardini fioriti in tutte le stagioni.

Non è dunque la stella del mattino che ha chiamato il monaco nel deserto, nè il vento della primavera che corre sopra le sabbie. Che cosa vi è dunque nel deserto che non vi sia, migliore, in Alessandria? Che cosa conduce il monaco ad abitare l'aridità sterile del deserto sul quale non ardiscono inoltrarsi in volo neppure gli stormi che in autunno migrano a oriente?

Io vi dico che il monaco spera nel silenzio, ama la solitudine, egli non fugge la vita ma è alla continua ricerca di essa là dove essa meno appare nel suo rigoglio e nel suo trionfo, egli è come un'isola in mezzo all'oceano.

Ma voi direte: grande è il silenzio ma la parola è più grande.

E io vi dico: fate in modo che le vostre parole siano migliori del silenzio.

Quante cose dice il silenzio che le parole non sanno dire!

E quante cose sono taciute in un discorso di troppe parole!

Imparate dunque a tacere come il monaco nel deserto, egli non parla e non s'illude di essere ascoltato. E' meglio sedere sulle pietre del deserto in un silenzio pieno di attesa o sedere sui troni dei sapienti per ingannare gli uomini con l'abbondanza della parole?

Ma voi mi direte: meglio è sedere nell'orto della propria casa e dispensare a quelli che si amano parole migliori del silenzio.

E io vi dico: beati quelli cui sarà concesso.

Il monaco non  ha tesori, egli non conosce la spada, non teme lo strepito della guerra perché nessun re appresterà un esercito per conquistare il deserto, e quando anche gli avessero tolto la vita, che cosa in fondo gli avrebbero tolto? Tra il monaco e il re vi sono due differenze: la prima è nel vestito, la seconda è nel cuore. Voi giudicate di ciò che il monaco non ha ma il vostro sguardo non arriva a scrutare il profondo del cuore ove egli tiene i suoi tesori. Imparate dunque a vedere nel profondo.

A che cosa paragonerò il cuore del monaco? Quale segno vi darò per comprendere ciò che è nel segreto?

Il cuore del monaco è simile alla sorgente che sgorga nel deserto, una polla d'acqua viva che non alimenta nessun fiume ma si perde tra le sabbie, eppure a quella vena d'acqua vengono i cammelli e le capre per trovare ristoro, vi crescono intorno datteri dolcissimi e l'odore dell'erba verde si spande nel deserto, le case bianche accolgono un'ombra riposante e i bimbi giocano nei giardini.

Ma che cosa sarebbe tutto questo se la fonte fosse prosciugata? Io vi dico: la sabbia ricoprirebbe l'erba e perfino le palme più alte e di un luogo di vita non rimarrebbe neppure traccia.

Figli di questa città, nel giorno santissimo di San Marco, cantate con una sola voce, il vostro grido di giubilo superi i mari e i deserti, si oda in ogni parte della terra, è sorta per voi un'alba radiosa, un mattino di speranza ha invaso l'orizzonte di questa città, ecco voi dite: siamo qui felici a celebrare la nostra gioia, e io vi dico che non vedrete fiorire il deserto di questa città se non sarete fiori nel deserto, che attenderete in vano il sorgere del sole se vivrete senza speranza sino alla sera. Non temete il deserto se è fuori di voi, temete piuttosto l'aridità del vostro cuore.

Chi ha orecchio per intendere intenda: molti confondono il vivere con il non morire, beato colui che intende la differenza".

Ed ecco, quanti erano presenti dissero nei loro cuori: "Il nostro Patriarca è veramente l'uomo mandato da Dio".

E in quel giorno, Dioscoro, che aveva dimenticato la sua angoscia, notò che in San Michele, vi era un giovane, che lo ascoltava con attenzione e si ricordò di averlo veduto ormai da molto tempo all'ora del vespro, seduto sempre nel medesimo posto, e questo pensiero lo accompagnò per l'intera giornata ed egli cominciò a comprendere che il desiderio di morire non lo avrebbe più assalito perché la sua anima non era più una pianta inaridita, e così egli cominciò a rifiutare la tentazione del suicidio, ma nel suo cuore combatteva una grande battaglia: era Vescovo e avrebbe dovuto guidare il suo gregge trasmettendo la dottrina che aveva ricevuto, ma egli era anche un uomo incapace di rinunciare ai propri sentimenti e alla propria concezione del bene e del male.

E nella notte seguente la festa, nel chiarore della luna piena, Dioscoro si ritirò nel chiostro e disse tra sé: "Se io fossi Macario o Atanasio o Ilarione, il mio corpo sarebbe polvere ma la mia anima vedrebbe il paradiso, ma io sono Dioscoro ed a me, che sono Patriarca, non è dato neppure sperare nella morte, io ho venerato Policarpo che era un uomo saggio, ma le anime degli uomini di Alessandria sono come le anime dei bambini ed essi non comprendono se non ciò che viene loro insegnato, ed hanno affidato a me la loro speranza e Dio ha posto i loro cuori nelle mie mani ed ha posto nelle loro mani il mio cuore. E io vivo fra uomini che non mi comprendono e che credono che gli angeli scendano dal cielo per parlare con gli abitanti di questa città, perché crederlo li conforta ed essi non vedono che la loro via verso la verità e tutto il resto è scandalo ai loro occhi".

Venuto il mattino, Dioscoro sedette al suo tavolo di lavoro e si soffermò a scrivere una lettera pastorale a tutti i vescovi dell'Egitto, invitandoli nel nome di Cristo a conservare la fede degli Apostoli perché, secondo quanto egli scriveva loro, "senza la fede non esiste salvezza e beato è colui che ripone in Dio la sua speranza". Ora ecco, il giovane che il Patriarca aveva veduto in San Michele, che si chiamava  Fabiano, ed aveva allora diciannove anni, avendo udito più volte Dioscoro predicare, aveva notato che egli era un uomo rispettoso della vita altrui e in ogni cosa, seguendo il consiglio evangelico, mostrava speciale attenzione a non pronunciare condanne e a non dare giudizi e lasciava che ciascuno giudicasse secondo il proprio cuore.

Fabiano in quei giorni era in preda all'angoscia perché aveva sentito dentro di sè nascere l'amore per un altro giovane che lo disprezzava e lo teneva lontano, alla sofferenza per l'amore respinto Fabiano aggiungeva anche il terrore del castigo divino, poiché aveva sentito che Dio aveva distrutto il paese di Sodoma facendo piovere dal cielo fuoco e zolfo. Egli sapeva però che i greci non avrebbero trovato in lui nessuna ragione di scandalo e sapeva anche che Dioscoro era greco, e per di più, mai una volta egli lo aveva sentito pronunciare anatema contro quei sentimenti che erano nati nel suo cuore. Fabiano veniva ogni giorno per ascoltare Dioscoro, ed ogni volta usciva confermato nella sua speranza, perché Dioscoro non parlò mai di che cosa fosse bene e di che cosa fosse male, ma ripeteva sempre che secondo l'insegnamento del santissimo Atanasio, bisogna seguire i desideri del proprio cuore perché tutto ciò che Dio vi ha fatto nascere è buono.

Ora ecco Fabiano sapeva che pochi avevano avvicinato Dioscoro e nessuno aveva mai avuto con lui familiarità, se non il Vescovo Policarpo, venne dunque alla Chiesa di San Michele con timore e con ansia ed entrò, non visto, nella sala dove il Patriarca lavorava e senza salutarlo si sedette in un angolo.

Quando Dioscoro sollevò il capo lo vide, subito lo riconobbe e fu colto da un istante di smarrimento, poiché Fabiano era di singolare bellezza e i suoi modi erano  rispettosi. Il Vescovo si alzò e si avvicinò a Fabiano ma si tenne comunque a una certa distanza e affabilmente lo invitò a dire chi fosse e gli chiese: "Che cosa vuoi che io faccia per te?" e Fabiano gli rispose: "Io voglio che tu mi dica che cosa vedi dentro di me" e Dioscoro gli rispose: "Da molti giorni ho notato la tua presenza in San Michele e ogni giorno avevi volto triste e pensieroso", Fabiano fu felice che il Patriarca si fosse accorto di lui, ma non trovava le parole per rispondere e i suoi occhi si fecero umidi e cominciò a piangere e Dioscoro gli disse: "La mia anima ha bevuto la tua presenza e quando parlavo in San Michele era come se parlassi per te soltanto e tu, che pure non lo comprendevi, sei stato la lanterna del Patriarca in una notte lunghissima di disperazione ed è a causa tua che io non mi sono smarrito e non sono finito nelle fauci della morte", ma ecco, venne il Diacono e Dioscoro dovette allontanarsi con lui e, quando ritornò, Fabiano non c'era più. E Dioscoro rimase turbato e credette di aver creato scandalo in lui, ma pensò di avere detto la verità senza reticenze e tanto gli bastò, e da quel momento non si sentì più solo in Alessandria e quando la notte si recava a meditare fra i sepolcri del chiostro di San Michele, l'immagine di Fabiano gli era sempre presente ed egli non poteva pensare ad altro e sperava di rivederlo al più presto. Anche Fabiano fu colpito dall'incontro con Dioscoro e disse tra sè: "Dioscoro non mi ha chiesto nulla, non mi ha angustiato con domande insistenti, ma lui stesso ha saputo dirmi cose assai migliori di quelle che io attendevo e io ho visto la profondità e la semplicità dell'anima di Dioscoro e sono confermato nella mia speranza".

Dopo non molti giorni, Fabiano si recò nuovamente dal Patriarca, con la determinazione di parlare apertamente con lui e di chiedergli consiglio, poiché pensava che Dioscoro gli avrebbe indicato la via per dominare i propri sentimenti e lo avrebbe indotto a una rigida disciplina ascetica ed egli l'avrebbe accettata e sarebbe stato disposto perfino a ritirarsi nel deserto.

Fabiano parlò dunque a Dioscoro con insperata semplicità e Dioscoro lo ascoltò con attenzione e quando egli ebbe terminato, il Patriarca gli narrò della sua vita, come aveva fatto con Policarpo, e si fermò a parlare di Diocleo e mentre parlava i suoi occhi si fecero umidi, disse a Fabiano che Diocleo era sempre vivo nel suo cuore ed egli aveva cercato per tutta la vita la consolazione di non averlo amato abbastanza. Fabiano rimase sconvolto da ciò che Dioscoro gli andava dicendo e restava in silenzio, cercando di custodire ogni parola dentro il suo cuore, poi chiese a Dioscoro: "Santissimo Patriarca, come hai potuto tu rinnegare tutto questo per assumere la dottrina perfetta di Cristo?" e Dioscoro gli rispose: "Nessun uomo libero può rinunciare a ciò che profondamente sente dentro di sé, ovunque egli vada la sua anima andrà con lui e non lo abbandonerà e solo quelli che non sono liberi e vivono sotto il peso di una legge che non è scritta nei loro cuori possono rinnegare sé stessi, poiché la loro anima non appartiene a loro, tu hai udito che quelli che si fanno cristiani vogliono morire alla vita precedente per rinascere ad una vita nuova, ma tu sai che si nasce una sola volta e che la direzione del tempo non si può invertire né la sua durata può essere annullata e dunque nessuna rinascita ci libererà dall'uomo vecchio, e perché poi dovremmo rinnegare ciò che ha dato un senso alla nostra vita? L’uomo vecchio non può ritornare bambino, egli potrà cercare con tutte le forze della sua volontà di non lasciarsi coinvolgere dalle difficoltà e dalle complicazioni che la vita comporta e di essere in questo senso semplice come un bambino, ma la sua non sarà semplicità nè immediatezza ma cosciente impegno e sforzo di volontà. Potrai rinnegare della tua vita a stento e con enorme sforzo ciò che profondamente non le appartiene ma non potrai rinnegare la parte migliore di te perché questo sarebbe contrario alla tua coscienza. Altri potranno dire ciò che è bene e ciò che è male per loro, altri potranno in nome della filosofia, in nome del bene o in nome di Dio stesso farsi portatori della loro verità spacciandola per legge naturale o per il senso delle cose o per l’insegnamento della fede, ma ciascuno sa ciò che è bene secondo la sua coscienza e non può rinnegarlo, e non vi è al di fuori di questa altra legge di libertà".

E Fabiano gli domandò: "Come puoi tu sentirti cristiano ed essere Vescovo di questa città se non vivi secondo la legge che Cristo ci ha dato?", e Dioscoro gli disse: “Quando conobbi il santo patriarca Policarpo vidi che la sua fede non aveva oscurato il suo intelletto ed egli era ancora capace di dubitare, non della parola di Dio, ma del fatto di poterne comprendere il significato, egli cercava dentro di sé il significato delle cose e aveva il dono della perplessità, non lo udii mai proclamare una certezza né fare o dire nulla che io stesso non avrei potuto fare o dire, e la sua stessa fede non era una certezza che operava miracoli, ma un impegno che pervadeva tutta la sua vita, non soltanto egli non giudicava ma riteneva che il mistero di Dio è sopra di noi e a nessuno è dato scrutarne le profondità e pur essendo il Patriarca di questa città era umile e cercava di comprendere più che di essere compreso, cercava di leggere l’insegnamento di Dio attraverso la vita dei suoi fratelli e si sforzava di amarli fino a comprendere il significato della loro vita anche quando questa vita era diversissima dalla sua. La dottrina di Policarpo non era né dogma né precetto, essa era piuttosto rispetto e amore. Tu sai che Cristo ha detto che amare è il massimo dei comandamenti e nel Vangelo invano cercheresti una condanna della specie d'amore che ti angustia, ed anzi San Giovanni posò il capo sul petto di Cristo la sera dell'ultima cena, perché era il più giovane dei discepoli ed Egli lo amava. E non vi è forse in questo gesto un precetto più grande della Legge di Mosè?"

E Fabiano gli chiese: "Ma perché dunque ci hanno sempre insegnato che amare un altro uomo è contro la legge di Dio?" e Dioscoro gli disse: "Amare non è mai contro la legge di Dio. Quando Davide seppe che Gionata era morto lo pianse come si piange un amante  e disse che lo aveva amato più di come si ama una donna, e Davide era l'unto di Dio. Ma non devi meravigliarti dei precetti che non comprendi: valgono di più le parole dei maestri e la loro dottrina o l’esempio di Cristo e la sua mitezza? Nessuna angoscia dovrà invadere il tuo cuore quando ti sembrerà che la Scrittura ti condanni o che ti presenti un modello che non è conforme al profondo del tuo cuore: abbandona piuttosto ciò che tu credi essere fedeltà alla Bibbia che non la fedeltà alla tua anima perché la Bibbia non è che un libro", e Fabiano gli disse: "Ma la Bibbia è l'unico libro che insegna la verità" e Dioscoro gli rispose: "Ho imparato a diffidare degli uomini che dicono che la verità è contenuta in un solo libro, vi sono uomini che non hanno mai conosciuto la nostra fede e non ne hanno mai sentito il bisogno, vi sono quelli che hanno creduto a Plotino o ai libri sibillini, ciascuno ha riconosciuto la traccia di Dio dove ha potuto, nessuno di essi ha ragione se non in proporzione della rettitudine del suo agire e dell'amore che ha dato al suo prossimo", e Fabiano ancora gli chiese: "Dimmi, ti prego, come hai potuto raggiungere la tua libertà che mi sembra immensa" e Dioscoro rispose: "Quando ascoltai Omero vidi che Achille e Patroclo erano splendidi eroi ed essi si amavano, e il dio Apollo amò Giacinto e Zeus, il re di tutti gli dèi, fece rapire Ganimede per averlo con sé nell'Olimpo e volle che rimanesse eternamente giovane, e tutto ciò fu insegnato a me fanciullo, così che la mia libertà non fu una conquista ma crebbe con me, e quando cominciai ad amare Diocleo non pensai mai che quell'amore fosse ingiusto, e vissi accanto a lui portando nel cuore la mia felicità.

E' piuttosto dalla comune interpretazione della vostra fede che io ho avuto scandalo, perché essa sembra non amare la libertà e può creare nelle anime deboli la paura di un castigo e, ciò che è peggiore, impedisce a molti di vivere secondo la loro legge, anche quando la loro legge è una legge di rispetto e di amore, ma ecco, io ho accettato il trono di Alessandria per allontanare gli uomini dalla paura e per amarli secondo la legge del mio cuore, non per dare loro qualcosa ma per rimanere accanto a loro e gioire della loro vita, credevo io stesso di poter essere sommerso dai vincoli  di una legge che sembra distruggere la libertà, ma comprendo che nessuno, neppure il Patriarca, può annullare la propria anima e che il precetto di non dare scandalo comporta solo il rispetto dell'uomo perché nessuna legge potrà mai impedire a un uomo libero di essere sé stesso. Vi è maggiore scandalo nella falsità o nella verità? E Cristo stesso, che ha elogiato la prudenza, ha esecrato gli ipocriti e si è scagliato contro coloro che non testimoniano la verità, perché nessuna confusione potesse sussistere tra la prudenza e la falsità, perché la prudenza è segno d’amore mentre l’ipocrisia è segno di viltà. Colui che si preoccupa dello scandalo e in nome di esso si nasconde ha scelto la via della falsità e la sua regola sarà dettata dal timore, mentre colui che ha scelto la difficile via della libertà dovrà amare anche coloro che non lo comprenderanno e in questo modo avrà offerto loro uno scandalo d’amore e Cristo diede scandalo agli scribi e ai farisei e lodò con parole altissime la peccatrice che si era fermata ad ungere il suo capo col nardo, ma i farisei mormorarono contro di lui, e a quanti gli dicevano che non è lecito guarire in giorno di sabato rispondeva che il figlio dell’uomo è signore del sabato e che il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato".

E Fabiano gli chiese: "Ma come si può essere uomini liberi se si vive una città che anche della sequela di Cristo ha fatto un'idolatria? E come può un cuore debole non temere il giudizio degli uomini e non desiderare di ritirarsi a morire nella grande Sirte?" e Dioscoro gli rispose: "Sta scritto - siate semplici come le colombe e prudenti come i serpenti - e vi è più saggezza in questo consiglio che nei libri di molti filosofi, e Cristo stesso dice: - Non date le perle ai porci né le cose sante ai cani perché essi non le calpestino e non si rivolgano contro di voi -. Certo è più facile una dottrina che non chiede alla ragione uno sforzo di prudenza e che in luogo di consigliare prescrive, ma queste dottrine non sono per gli uomini liberi, perché esse seguono la via del timore e non quella dell’amore. La prudenza è difficilissima tra tutte le virtù perché essa è una forma d’amore e non di timore,  nulla può essere giudicato buono o cattivo a priori ma l'albero si giudica dai frutti. Il divino Epicuro soleva chiedere ai suoi discepoli se l'esercito o la monarchia o Dio stesso fossero buoni o cattivi ed egli diceva loro che se l'esercito serve a mantenere la pace è buono, ma se serve a portare lutti e distruzioni è cattivo, che se il re governa con giustizia è buono ma se è pieno di avidità e si trasforma in tiranno è cattivo e che se Dio serve a insegnare agli uomini una strada di moderazione e di felicità è buono, ma se serve a provocare sangue e sacrifici umani è cattivo. Ecco dunque che la libertà dello spirito non è soffocata dalla prudenza nell'agire ed anzi gli uomini liberi sono prudenti perché desiderano che la loro opera non vada perduta e proprio poiché la credono buona desiderano che la loro testimonianza possa parlare del bene e della felicità a tutti coloro che vorranno accettarla, né poi dovrai condannare coloro che in nome di Dio o della giustizia provocano sofferenze e dolori, poiché Cristo stesso, che era l’agnello senza macchia, sulla croce disse: -Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno-, ed Egli, era stato condannato a morte dal sinedrio e dal sommo sacerdote che portava la Legge di Dio scritta sul suo pettorale, ma non l’aveva nel suo cuore".

E Fabiano chiese a Dioscoro: "Che cosa dunque dovrò fare?" e Dioscoro gli rispose: "Non chiedermi che cosa dovrai fare, resta piuttosto un uomo libero e accetta l'angoscia della tua libertà, innanzitutto impara a conoscere te stesso secondo il consiglio dell'oracolo delfico, quindi scegli ciò ti parrà migliore secondo la rettitudine della tua coscienza e sii a te stesso il tuo Cristo e il tuo Vangelo", e Fabiano gli disse: “Ma dovrò dunque allontanarmi dalla fede e accettare la solitudine del mio cuore rinnegando l’insegnamento di Cristo?” e Dioscoro gli rispose: “Quando leggerai le parole del discorso della montagna o le parabole del Vangelo e soprattutto quando leggerai della passione di Cristo applica il tuo spirito a quelle parole e rifuggi le interpretazioni dei maestri che vanno cercando chiarezza e spiegazioni perché essi stessi sono confusi e non comprendono la ricchezza di ciò che commentano; così, quando rileggerai le stesse parole, a distanza di giorni o a distanza di anni, vi troverai altri significati e la ricchezza di quella lettura avrà ogni giorno l’ampiezza del tuo stesso spirito, fuggi l’insegnamento dei retori e dei giuristi che vogliono rinchiudere nella loro scienza il comandamento dell’amore e presumono di interpretare e di capire il progetto di Dio il cui mistero è insondabile. Nessuna incompatibilità vi è tra la fede vissuta con libertà di coscienza e la ricerca di ciò che il nostro cuore ci indica, Cristo ha annunciato un Vangelo di gioia, che stravolge la logica e la dialettica di questo mondo, quando esso si trasforma in uno strumento di giudizio o di sofferenza ciò non dipende dal messaggio di Cristo, ma da quanto alcuni vogliono trovarvi ricercando nelle parole ciò che non sentono nello spirito, così accade che in nome di Cristo si compiano atrocità e che la sua parola divenga strumento nelle mani di falsi maestri che, pur con ogni apparente mitezza, insegnano il terrore e non la via della salvezza. E il santissimo patriarca Atanasio soleva ripetere che non si devono reprimere i desideri del nostro cuore perché tutto ciò che Dio vi ha fatto nascere è buono, la santità è infatti in tutte le cose e per l’uomo è una condizione naturale, nessuna colpa si può ereditare o trasmettere, né alcuna condanna si può pronunciare se non contro se stessi dinanzi tribunale della propria coscienza, la via della salvezza è la via dell’amore, per distinguere coloro che veramente amano da coloro che amano soltanto se stessi vi è una sola via ed è quella che Cristo stesso ci ha insegnato, dai loro frutti essi potranno distinguersi perché non può l’albero buono fare frutti cattivi né l’albero cattivo fare frutti buoni, quelli che non hanno scelto la via dell’amore peccano per il fatto stesso che non amano mentre coloro che amano non possono peccare e Cristo ha insegnato che nessuno ha un amore più grande di colui che dona la vita per coloro che ama”, e Fabiano si allontanò dal chiostro di San Michele e conservava nel suo cuore le parole di Dioscoro e si sentiva libero e cominciò a interrogare sè stesso per conoscere che cosa dovesse fare, ma la libertà era angosciosa, egli era libero, ma senza guida e senza consolazione, ed ecco, poiché Fabiano era giovane e sentiva l'urgenza della novità di quanto aveva appreso, fu infiammato dalle parole di Dioscoro al punto che pensò che Dioscoro aveva vissuto una giovinezza felice e che egli era divenuto un uomo libero perché aveva seguito i desideri del suo cuore e che sarebbe stato bello per lui potere vivere alla luce del sole i propri sentimenti come era accaduto a Dioscoro, risolse dunque di parlare di ciò che aveva nell'animo e di affrontare qualsiasi disagio e qualsiasi difficoltà per fare crescere l'anima sua in un terreno di libertà.

Tornato nella propria casa andò da suo padre e gli disse che egli amava il suo amico Filostrato, ma il padre si vergognò di lui, lo fece tacere e lo percosse violentemente e gli chiese: "Come mai tu, che sei stato sempre timorato di Dio e rispettoso della legge antica hai potuto concepire tali nefandezze?" e Fabiano gli rispose: "Ho imparato a scrutare dentro me stesso e a conoscere la mia anima secondo l'oracolo di Delfi", e il padre montò in collera e gli disse: "Figlio scellerato, chi ti ha insegnato le parole di un dio pagano e ti ha allontanato dalla via retta dei figli del vero Dio?", ma Fabiano gli rispose: "Come puoi tu essere servo di una legge antica che non è scritta nel tuo cuore? Perché vuoi impedirmi di essere un uomo libero?" ma fu minacciato da suo padre e per il timore che nascesse uno scandalo, egli stabilì segretamente di allontanarlo da Alessandria e di mandarlo a lavorare tra i pastori nell'oasi di Sefremi, che si trova nel deserto occidentale a più di sei giorni di cammino da ogni altro luogo abitato. In quell'oasi transitavano soltanto di tempo in tempo delle carovane di cammellieri per fare provvista di acqua, nessuno vi era mai giunto se non in carovana e nessuno ne era partito da solo che non fosse perito lungo la via per la sete e per l'ardore del sole.

Inviando Fabiano all'oasi di Sefremi suo padre pensava che egli non avrebbe potuto allontanarsi e lì avrebbe meditato sulle sue scelte e mutato i suoi sentimenti, avrebbe vissuto pascolando le pecore e avrebbe appreso la legge della sottomissione piegando il suo cuore all'obbedienza.

Ma Fabiano non venne a sapere ciò che suo padre aveva stabilito, il padre anzi fece vista di averlo perdonato e gli disse che sarebbero partiti insieme per andare a Sefremi perché lì egli avrebbe dovuto acquistare un cammello, partirono dunque prima delle luci dell'alba e si unirono alla carovana che contava venti cammelli e viaggiarono per sei giorni e sei notti e Fabiano diceva nel suo cuore: "Non vi sono forse cammelli in Alessandria capaci di soddisfare anche l'intenditore più raffinato, perché noi dobbiamo affrontare un viaggio così terribile, a rischio di morire di sete e di essere sepolti sotto la sabbia del deserto, per acquistare un cammello nell'oasi di Sefremi?" ma egli sapeva che a un figlio non spetta interrogare suo padre su ciò che egli ha stabilito e quindi non domandò nulla a suo padre, gli disse soltanto: "Il deserto dell'occidente è peggiore di Sceti e della Nitria, non vi sono né piste né anfratti per ripararsi la notte o quando il meriggio è infuocato, come potranno quelli che vivono a Sefremi vedere mai anima viva se intorno a loro si estende un tale mare di desolazione? Ecco in questo deserto solo un conoscitore esperto delle stelle potrebbe non perdere la via", e il padre vide che suo figlio aveva compreso che dall'oasi di Sefremi nessuno mai si era allontanato da solo perché sarebbe andato incontro a morte certa.

Quando giunsero a Sefremi, Fabiano vide che nell'oasi vivevano solo cinque pastori ed essi accudivano più di cento cammelli e di duecento pecore perché l'acqua era abbondante e si raccoglieva in una larga depressione verso il limite settentrionale del palmeto fino a formare un piccolo lago, dove si lavavano i cammelli e le pecore andavano ad abbeverarsi.

La carovana si fermò per due giorni e, fatta provvista di acqua, partì durante la notte e il padre di Fabiano, che nulla aveva detto a suo figlio delle sue intenzioni, mentre egli dormiva in una capanna, partì senza avvisarlo e fece ritorno in Alessandria..

Alle prime luci dell'alba Fabiano uscì dalla sua capanna per cercare suo padre, ma vide che la carovana era partita e il vento aveva cancellato le tracce e l'orizzonte era completamente libero, udiva solo il belato degli agnelli, e all'infuori di ciò il silenzio era totale, andò quindi alla capanna dove aveva visto i pastori, essi erano giovani e avrebbero voluto vivere in Alessandria, ma la povertà aveva spinto le loro famiglie a venderli come servi perché nell'oasi avrebbero almeno potuto trovare di che sfamarsi, ed essi informarono Fabiano che suo padre sarebbe ritornato a riprenderlo dopo un anno e che per quell'anno avrebbe lavorato con loro. Fabiano narrò loro che dal tempo del Patriarca Policarpo non si vedeva più povertà in Alessandria, e disse che dopo Policarpo era stato unto Patriarca Dioscoro, ma essi non lo conoscevano perché erano stati mandati a Sefremi ai tempi del Patriarca Pietro e da allora nulla più avevano saputo di ciò che era accaduto in città.

La vita nell'oasi trascorreva con i ritmi lenti della luce e del buio e la notte non vi era lucerna e quando spuntava la luna le ombre delle palme si allungavano sulla sabbia. Col trascorrere dei giorni Fabiano sentì sempre più il disagio della solitudine, ma la comunanza di vita con i pastori fece rinascere in lui sentimenti sopiti, egli andava con loro a governare le greggi e i cammelli e conduceva le bestie al lago, ed entravano nel lago nudi insieme con gli animali, tutto ciò, che per i pastori era usuale e non costituiva ragione di meraviglia o di turbamento, toccò invece profondamente l'anima di Fabiano che vedendo che uno dei pastori, di nome Set e dell'età di venti anni, era di singolare bellezza, lo amò in cuor suo e tenne per sè il suo segreto poiché avrebbe voluto dirgli ogni cosa con semplicità ma non ne aveva il coraggio poiché temeva che Set lo avrebbe biasimato.

Ora mentre si trovava solo con Set, gli si avvicinò, gli prese la mano e gli confessò il suo amore, Set si ritrasse ma Fabiano ebbe l'impressione che fosse solo sorpreso e difatti Set non lo biasimò. Fabiano si sentì felice, ma Set se ne andò a conferire con gli altri pastori ed essi, che non avevano donne, pensarono di usare di Fabiano e segretamente stabilirono che in quella stessa notte avrebbero abusato di lui.

Giunta la sera Fabiano rientrò alla capanna ed essi gli si posero intorno e da quanto gli dicevano egli comprese ben presto le loro intenzioni e si spaventò e provò a supplicarli dicendo che non voleva e che la violenza è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, si rivolse a Set con sguardo implorante ma Set incominciò a ridere, Fabiano cominciò a fuggire per la capanna, ma essi occupavano la porta, egli allora sfondò una parete di foglie di palma e sentì le spine entrargli nella carne e si trovò all'esterno; sapeva bene che non poteva allontanarsi dall'oasi perché sarebbe perito nel deserto, e pensava che se avesse potuto nascondersi fino all'alba essi forse lo avrebbero lasciato in pace, ma i pastori erano eccitati e pensavano che comunque lo avrebbero ritrovato e avrebbero abusato di lui, Fabiano, che si era nascosto per tutta la notte si era poi addormentato, e fu Set a ritrovarlo, e cominciò a urlare per chiamare i suoi compagni, Fabiano tentò di fuggire, ma alla fine essi lo presero e tutti, ripetutamente, gli usarono violenza ridendo e dicendogli infamie di ogni genere, Fabiano gridava per la violenza e per l'umiliazione e li supplicava che avessero pietà di lui, ma essi non lo ascoltarono e lo lasciarono in pace solo quando furono esausti.

Fabiano sentì il peso terribile dell'umiliazione e comprese che Set non solo aveva approfittato di lui ma aveva voluto che gli altri pastori facessero altrettanto e lo invase un grande terrore perché credette che quanto gli era accaduto si sarebbe ripetuto ogni giorno a la sua vita sarebbe stata quella di uno schiavo prostituto che diviene l'obbrobrio di quanti vivono accanto a lui, e se egli avesse tentato di rifiutarsi essi lo avrebbero costretto alla loro volontà con le percosse ed egli comunque avrebbe dovuto cedere.

Pensò dunque che la vita sarebbe divenuta per lui un'angoscia insopportabile e che la morte per sete nel deserto lo avrebbe almeno liberato da più lunghi tormenti, si ricordò poi di Dioscoro e ripensò a quanto egli gli aveva detto sulla prudenza e comprese che essa è la più difficile delle virtù, ma Fabiano non si rammaricò che Dioscoro fosse stato con lui poco prudente e lo avesse spinto con le sue parole verso un destino di rovina ma si sentì anzi più vicino al Patriarca e gli parve che le parole di Dioscoro avessero un significato profondo e che il prezzo della liberà, anche se altissimo, dovesse essere pagato in ogni caso. Fabiano si fermò a riflettere sulle parole di Dioscoro che tanto lo avevano colpito ed amò Dioscoro quanto mai lo aveva amato prima perché lo ritrovò simile a sé, e gli tornarono alla mente le parole che il Vescovo aveva detto nel giorno di San Marco: "Quelli che hanno nei loro cuori una fonte di acqua viva non periranno nel deserto", e cominciò a coltivare la speranza di tornare vivo in Alessandria e di rivedere Dioscoro che certo lo aveva amato come nessuno aveva mai fatto.

Il progetto della fuga rianimò Fabiano ed egli segretamente preparò due cammelli, uno per sé ed uno per caricare gli otri dell'acqua, e mentre i pastori conducevano le greggi al pascolo verso occidente egli si avviò, in pieno giorno verso oriente. Aveva osservato con attenzione le stelle durante il primo viaggio e aveva visto come l'ombra del sole indicata da un bastone servisse al capo della carovana per individuare la via. E camminò per sei giorni e sei notti seguendo ciò che il suo cuore gli indicava e diceva tra sé: "Se vivrò, vivrò da uomo libero, se morirò morirò da uomo libero", la fatica, l'arsura, la paura della morte lo assediavano ma egli aveva dentro di sé una fonte di acqua viva e la sua speranza non venne meno, e poiché per tre giorni le nuvole avevano oscurato il sole, giunse in vista di un villaggio un giorno prima che la sua acqua si esaurisse e il suo cammello fosse stremato, ma siccome egli non era esperto del cammino, si era spinto troppo a nord ed era giunto nel villaggio di Giafsana a due giorni di cammino da Alessandria, qui si riposò, vendette uno dei cammelli e disse in cuor suo: "Ecco, io sarò un uomo libero perché la speranza non mi ha abbandonato". Il giorno seguente partì prima dell'alba e a notte alta giunse in vista di Alessandria e si recò subito al chiostro di San Michele e vi trovò Dioscoro che vegliava.

Il Patriarca, che ormai da molto tempo non aveva più avuto notizie di Fabiano, era caduto in una forma di angosciosa disperazione, nè erano bastate a condurlo sulla via della speranza le necessità del suo ministero, che lo occupavano senza lasciargli libera una sola ora del giorno e che egli compiva con il massimo zelo ma con l’angoscia di compiere un dovere di cui non si comprende lo scopo. Proprio in quel tempo Dioscoro aveva cominciato a scrivere il Libro della Regola, cercando di trasfondere in esso attimo per attimo il senso della sua stessa vita e della sua sofferenza, in modo da costruire una disciplina per il suo spirito, ma neppure il Libro della Regola riusciva a dargli pace ed egli ormai quotidianamente vegliava per l’intera notte in preda a una forma di angoscia implacabile e il pensiero della fine oscura di Fabiano lo assillava, perché Dioscoro la attribuiva in primo luogo alla propria imprudenza le cui conseguenze non era in grado di valutare, ed aveva ricominciato ad abbandonarsi al vagheggiamento della morte, ma affinché essa oltre che utile per lui, perché lo avrebbe liberato dalla sua angoscia, fosse utile per tutti i figli della Chiesa di Alessandria, che pure egli si sforzava di amare, si fermava a pensare alla propria morte come ad una forma di martirio senza fede, una forma di dono che egli avrebbe potuto offrire agli abitanti della sua città perché essi ritrovassero in lui un esempio da seguire secondo i loro desideri. Ma l’angoscia di Dioscoro era invincibile e il ricordo di ciò che egli aveva detto a Fabiano aumentava la sua costernazione, perché Dioscoro pensava che Fabiano non avrebbe potuto riceverne che maggiore senso di solitudine e di sconforto e si ricordò di ciò che egli stesso aveva detto della virtù della prudenza. 

Quando il Vescovo vide Fabiano nel chiostro di San Michele si rallegrò come colui che ritorna dalla morte alla vita e, frenando l’entusiasmo incontenibile del suo spirito con una prudenza che gli costava sangue, gli chiese come mai fosse venuto da lui nel cuore della notte e Fabiano gli disse che suo padre lo aveva messo in guardia perché il Patriarca era greco ed era stato filosofo e gli aveva raccontato che i filosofi greci adescavano i giovani nei giardini dei ginnasi e li piegavano alle loro voglie e gli narrò poi come fosse stato condotto a Sefremi con l'inganno e come avesse dovuto subire violenza e pianse dirottamente, poi disse a Dioscoro: "Colui che ama non tradisce l'amato e quando egli è nelle angustie lo conforta e si dimentica di sé stesso per seguirlo fino ai confini del mondo poiché non vi è cosa più grande dell'amore" e il Patriarca gli rispose: "Hai parlato bene, da ciò solo tu conoscerai se veramente sei amato, quello che ti amerà sopra ogni cosa e sopra la sua stessa vita, quello che ti seguirà senza pensare, quello solo ti avrà amato", e Fabiano gli disse: "Santissimo Patriarca, tu che sei pastore del gregge di Alessandria e sei un filosofo che ama la verità, ti supplico, rispondimi sempre secondo verità" e Dioscoro gli disse: "Parla liberamente e io ti risponderò" e Fabiano gli chiese: "Dioscoro mi ami tu?" e il Vescovo, il cui cuore non aveva mai esitato dinanzi ad ogni sorta di pericoli, ammutolì e non ebbe coraggio di proferire parola poiché si sentiva smarrito e confuso, incerto non dei suoi sentimenti ma della opportunità di manifestarli e a nulla gli giovò tutta la sua dottrina ed ebbe paura di quanto il profondo del suo cuore gli dettava e Fabiano gli disse: "Ecco, il tuo silenzio è per me peggiore della morte, tu hai disseccato nel mio cuore anche le radici della speranza, se tu mi avessi risposto senza esitare io sarei stato felice, ti avrei baciato piangendo di gioia e ti avrei detto: fuggiamo da questa città maledetta dove non c'è pace per noi, ma tu sei il pastore di Alessandria e la vita di un uomo solo non vale come la pace di una intera città, solo ora comprendo cosa sia la solitudine e la disperazione" e ciò detto si allontanò fuggendo e Dioscoro fu preso da un violento sconforto e dalla disperazione e tentò di seguirlo ma lo perse di vista.

Ma ecco che, dato che era quasi l'alba, il padre di Fabiano si trovò a passare di là mentre andava verso i campi e vide suo figlio che fuggiva dal chiostro di San Michele e il Vescovo che tentava di raggiungerlo e chiamò i suoi amici e disse loro che Fabiano era stato sedotto da Dioscoro e che Dioscoro era un uomo indegno, e la voce si sparse rapidamente in tutta la città e quando al mattino Dioscoro, che aveva vegliato in preda alla più cupa disperazione, entrò in San Michele per gettarsi ai piedi dell’altare e pregare un Dio in cui non credeva cercando il perdono per avere distrutto la vita di Fabiano e sperando di trovare finalmente il coraggio di andare incontro al martirio, vide che la Chiesa era vuota e che non solo nessuno dei fedeli era venuto a pregare ma neppure nessuno del clero era rimasto in San Michele, perché lo scandalo aveva invaso la città. Si ritirò allora nella sua cella e pianse le lacrime dell'afflizione poiché egli non sapeva dove fosse Fabiano e temeva che egli fosse andato a morire nel deserto, ma questo stesso pensiero lo rianimò,  preparò subito un cammello per andare a cercarlo, ma poiché sapeva che il popolo mormorava contro di lui, si avvolse in un mantello per non essere riconosciuto e fuggì dalla porta orientale in pieno giorno e nessuno lo riconobbe, e mentre in città cresceva lo scandalo, Dioscoro, che non aveva mai vissuto nel deserto, si mise sulle vie del deserto alla ricerca di Fabiano, ma egli non sapeva dove andare, nè quali fossero le piste da seguire.

Viaggiò per l'intera giornata sotto la vampa del sole e quando le tenebre coprirono la terra si imbatté in una banda di predoni che lo riempirono di lividi e di percosse e gli rubarono la croce d'oro che Policarpo gli aveva donato, e Dioscoro caduto in preda della più oscura disperazione pensò che Fabiano sarebbe morto senza conforto e senza speranza e che nessuno gli avrebbe portato soccorso, ma questo pensiero nuovamente lo rianimò ed egli si ricordò che Fabiano aveva detto che per terrore gli uomini deboli preferiscono ritirarsi a morire nella grande Sirte, rimontò quindi sul cammello e si diresse verso quel luogo perché sperava di trovarlo ancora vivo e camminò per due giorni  e finalmente vide Fabiano in terra tra i sassi, con la pelle ustionata dal sole e le labbra seccate dalla calura del giorno.

Dioscoro costruì un riparo per il sole e, condotto Fabiano all'ombra, gli diede da bere a sazietà e quando quello riprese coscienza si sedette accanto a lui, ma non gli parlò, di tanto in tanto lo guardava negli occhi e, accarezzandogli il capo, gli sorrideva, e quando Fabiano ebbe recuperato le forze gli disse: "Ora so che ti amo e che non torneremo in quella città maledetta dove non c'è pace per noi, come ho potuto resistere all'amore che sentivo nascere dentro di me? Ecco io ti ho dato scandalo perché non ho saputo amarti abbastanza e ho creduto che la vita di un uomo valesse meno della pace di un'intera città, sono stato timoroso e ho provato il terrore dell’indecisione di fronte al sentimento che viveva dentro di me ma tu mi hai insegnato a non avere paura, a mettere da parte la falsa prudenza e a vivere secondo i desideri del mio cuore, io non sono degno di te, ma tu mi hai amato ugualmente".

E Dioscoro volle che Fabiano appoggiasse il capo sul suo petto, come Giovanni aveva poggiato il capo sul petto di Cristo la sera dell’ultima cena, e Fabiano guardò Dioscoro in viso e cominciò a piangere, e Dioscoro accarezzando i suoi capelli, lo stringeva a sé e Fabiano provava una dolcezza sconosciuta e il suo cuore traboccava di gioia ed egli provava solo un fortissimo desiderio di piangere, e Dioscoro, piangendo anch’egli, gli disse: "Ti prego, perdonami, soltanto tu puoi perdonarmi" e Fabiano gli rispose: "Oggi ho conosciuto il paradiso perché tu sei venuto a strapparmi dalle mani della morte e io ti amo più della mia stessa vita", e quando si fece notte il Patriarca volle che Fabiano si avvolgesse nel mantello e si addormentasse poggiando il capo sul suo petto e così gli disse: "Dormi sereno in questa santa notte, perché io sono accanto a te e finché avrò vita nulla potrà accaderti" e Fabiano si abbandonò felice al sonno e si sentì rinascere, poiché aveva accanto a sè chi riusciva a dargli conforto e in quella notte la paura lo aveva abbandonato ed egli era un uomo nuovo come colui che disperando della salvezza ha vissuto il terrore della morte ma poi trova la sua consolazione e la speranza diviene ai suoi occhi una certezza, e Dioscoro disse nel suo cuore: "Ti ringrazio, Signore, perché ho conosciuto la primizia del regno di Dio” e in quel momento ritrovò la sua fede e disse in cuor suo: “L’angoscia della morte mi ha abbandonato e il mio cuore è rinato alla vita”.

Ma ecco, il padre di Fabiano aveva saputo che alcuni mercanti avevano visto Dioscoro avviarsi verso la grande Sirte e poiché pensava di ritrovare suo figlio, lo seguì con alcuni suoi compagni e diceva loro: "Estirperemo dalla nostra città quell'uomo indegno e il suo paganesimo immondo", venne dunque nella grande Sirte, presso lo spiazzo sassoso dove Dioscoro s'era accampato e, vedendo Fabiano che poggiava il capo sul petto di Dioscoro, armò il suo arco e colpì il Patriarca al collo e Fabiano lo udì gridare e lo vide pieno di sangue, poi si accorse di suo padre e comprese quanto era accaduto e prese a correre contro di lui urlando a gran voce: "Perché? Perché?", ma il padre pensò: "Ecco come Dioscoro ha ridotto il cuore di mio figlio", e armò nuovamente il suo arco e piantò una freccia nel mezzo del petto di suo figlio, poi, rivolto ai suoi compagni disse: "Abbiamo riportato la giustizia in Alessandria, rientriamo dunque in città e lasciamo i loro corpi al sole del deserto perché non sono neppure degni di riposare in terra benedetta, un uomo perfido mi ha privato di mio figlio ma io ho compiuto la mia vendetta e col suo sangue ho purificato il mio onore".

E così accadde che Fabiano e Dioscoro, ottennero la corona perfetta del martirio.

Chi ha orecchio per intendere intenda!

E nessuno mai ritrovò le ossa di Fabiano e di Dioscoro e i loro nomi furono pietra di scandalo per gli abitanti di Alessandria. Ma ecco, gli uomini  che avevano ucciso Fabiano e Dioscoro vennero in città con le fiaccole accese e corsero presso la Chiesa di san Michele, ove Dioscoro soleva dimorare per distruggere ogni cosa col fuoco, ma io, Eusebio, giunsi prima di loro e misi in salvo quanto il Patriarca aveva di più caro e sottrassi dalla distruzione il Libro della Regola che egli aveva composto.

Or ecco, molti anni sono trascorsi da quei terribili giorni e la città di Alessandria ha dimenticato il sangue e la violenza di allora e io, che in quel tempo, all’età di venti anni, mi ritirai nel deserto per vivere come monaco secondo la Regola del Beato Dioscoro, ormai centenario, concludo la mia felice fatica e lascio la parola al medesimo Dioscoro, perché come fu di guida a me nella mia ormai lunghissima età, possa essere di conforto a quanti cercano la pace con purezza di cuore.

 

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